Ho sviluppato il concetto di pedagogia economica seppur convinta che sia stato consolidato nel tempo da menti più fini della mia. 

L'esperienza mi ha portato a credere che l'atto educativo ed ancor prima la progettazione educativa che deriva a sua volta da uno stile di pensiero dettato dalla formazione non scelta e da quella acquisita, sia inevitabilmente arricchito o compromesso dal filtro delle nostre aspettative e dal retaggio culturale/familiare. 

Non esiste il progetto educativo ideale perchè non esistono le persone ideali.

Ciascuno di noi è quel che è perchè frutto dell'incredibile complessità dei secoli, della contingenza e delle scelte operate dentro tale contingenza, oltrechè del caso e della natura.

La relazione educativa è figlia del qui ed ora, un frutto che non cade mai distante dall'albero del suo tempo, una relazione tra persone che si incontrano e danno luogo a dinamiche prevedibili o imprevedibili ma comunque uniche e originali.

Un utente unico ed irripetibile incontrerà un educatore unico ed irripetibile ed insieme percorreranno un tempo dentro cui si genera un percorso unico ed irripetibile.

Accade inevitabilmente che anche dentro questa relazione vengano proiettati fantasmi, istinti che istinti non sono, reattività, convinzioni e visioni che danno forma all'idea di cosa sia giusto, raccomandabile, perseguibile. 

Capita spesso che l'educatore pensi al progetto educativo sviluppando specificità a partire da certezze date. Sarebbe interessante andare a monte di quel che si dà per scontato, stabilito, incontrovertibile. Questo modo di procedere, faticoso e frustrante, è il solo arco che permettere di tendere realmente la corda verso l'obiettivo che è la cura dell'altro.

Cosa intendo allora per pedagogia economica?

Una volta stabilita cosa sia la cura per l'altro, bisognerebbe agire secondo la disarmante regola per cui certe azioni sono utili allo scopo ed altre non lo sono. La reiterazione di comportamenti che non portano all'obiettivo determina un'escalation di insoddisfazione reciproca, di impotenza, di frustrazione, un senso di malessere che porta in superficie desideri profondi mascherati da priorità educative. Sia che la relazione generi benessere sia che generi ansia, collera, senso di impotenza devo poter utilizzare a mio vantaggio questi sentimenti, come segnali di uno stare dove non tutto è detto, dichiarato. 

In sostanza: questo bambino non sta alle regole, gliele spiego, lui si oppone, io provo rabbia, urlo più forte.

A cosa serve il mio urlare? Quale scopo sto perseguendo? Lo raggiungerò urlando?

Perchè mi fa provare rabbia? La rabbia come mi spinge a stare dentro la relazione?

Perchè lui si oppone? Opporsi è semplicemente opporsi?

Glielo spiego. Sono davvero sicura che questa modalità di approccio sia funzionale al bambino e non soddisfi piuttosto il mio modo di stare alle regole?

A quali regole voglio che si adegui? Quale obiettivo sto perseguendo con questa scelta? Queste regole hanno davvero senso per il bambino o hanno senso per il contesto (che ha comunque la sua oggettiva importanza nel conto)?

Devo cedere un pò del mio desiderio affinchè l'azione educatica sia economicamente proficua, senza disperdere energie che sovraccaricano me di paesaggi educativi ingestibili o incoerentemente giustificati ma che soprattutto fanno perdere tempo all'utente. Tenendo conto che spinte emotive e visuali saranno comunque miei alleati: come ha detto una famosa pedagogista, l'educatore deve saper trasformare i vincoli in risorse.

La progettazione educativa ricava dalla complessità di ciascuno un'inestimabile ricchezza che genera e genera risposte creative, adattamenti generosi e commoventi. Nella scelta di intrattenere questo tipo di relazione vi è però il dovere di scendere a compromessi con la propria umanità e mettere la mani in pasta. Questo modo di procedere è esso stesso contenuto educativo, offre all'altro la consapevolezza rasserenante dell'utilità dello sbaglio, della comprensione della differenza, dell'approdo ad una comprensione, della complessità che sta dietro al dire e al fare.

Che cavolo, fare l'educatore è mica semplice.